Giovedì 24 Novembre 2005 - 21:00 - Auditorium della Fondazione TESTIMONI DEL TEMPO
Incontro con GIAMPAOLO PANSA
dopo la pubblicazione del suo libro "Sconosciuto 1945"
Come sono oggi i suoi rapporti con la sinistra di cui è sempre stato una sorta di pungente Grillo parlante?
«Non sono mai stato Grillo parlante di nessuno! La sinistra, peraltro, non sopporta Grilli parlanti, tanto meno se si chiamano Giampaolo Pansa. A volte non sopporta neppure i critici amichevoli e non prevenuti. E io critico lo sono, perché ritengo che ormai sia inutile parlare male del cavalier Silvio Berlusconi. Nel '77 sono stato uno dei primi critici di Berlusconi, quando alcuni antiberlusconiani di oggi lavoravano per il cavaliere! E oggi sono anche un critico della sinistra perché la considero la mia parte politica e penso che sia giusto tentare di migliorarla».
Più in generale quali sono i suoi rapporti con la politica?
«Sono sempre stati e sono tuttora pressoché inesistenti. Non sono mai stato iscritto a partiti politici o a gruppi e sono sempre stato un "cane sciolto" anche per atteggiamento mentale. Lo sono ancor di più da quando ho cominciato a scrivere libri che parlano della Repubblica sociale e delle sue tragedie dopo la guerra e sono stato per questo criticato da una certa sinistra che io definisco ottusa e trinariciuta. Io credo, comunque, di avere una grande fortuna nei rapporti con un potere politico che (contrariamente a quanto teorizza Arturo Parisi quando sostiene che i partiti sono destinati a morire) è sempre più robusto e prepotente: quella di non aver mai chiesto piaceri a nessuno. Non ho mai ambito a direzioni di giornali, non ho mai voluto cattedre universitarie, non ho mai accettato seggi in Parlamento, non ho mai chiesto prestiti né favori. E non dovendo niente a nessuno sono nella condizione più facile per tirare le pietre contro i lampioni».
Lei hai scritto che se Prodi scappasse con la segretaria, comunque il centrosinistra rimarrebbe in piedi, ma che lo stesso non accadrebbe nel centrodestra se fosse Berlusconi a fare la stessa cosa. Ne è sempre convinto e perché?
«Sottoscrivo la frase, ma con una piccola variante. Sono ancora convinto che senza Berlusconi il centrodestra precipiti ancor di più di quanto non sia destinato a fare alle prossime elezioni. Mentre se scappasse Romano Prodi, sì, il centrosinistra resterebbe in piedi, ma senza neppure più un ago della bilancia. E già oggi questa coalizione fa fatica a stare unita. Teniamo conto che ne fanno parte dieci gruppi diversi, senza un programma comune. O perlomeno non lo si è ancora visto. L'unico collante che li tiene in piedi è proprio la volontà e la tenacia di Prodi, che si è dato questa missione per certi aspetti assurda».
Le posso chiedere se alle prossime politiche farà come quella fascia di intellettuali di sinistra che dicono che voteranno Prodi "turandosi il naso"?
«A parte che questa è un'espressione "montanelliana" che non mi è mai piaciuta, io non ho mai votato "turandomi il naso". Ho sempre scelto. Posso però confessare - ed è un piccolo scoop - che per la prima volta in vita mia mi sto domandando se andare a votare o no. Naturalmente, se andrò a votare, voterò per il centrosinistra. E alla fine credo che finirà così».
Dunque prevarrà il suo senso civico?
«Ma perché dobbiamo porre la questione in termini di senso civico? In questo modo si offende quel trenta per cento di elettori italiani che non vanno a votare e che sono comunque dei cittadini perbene. Seguendo questo teorema, dovremmo anche dire che in molti Paesi europei quasi la metà degli elettori non ha senso civico. Mi sembra assurdo. Per quanto mi riguarda, comunque, se vado a votare è perché sono convinto che devo votare per Prodi, del resto ho già votato per lui alle primarie».
E non ne è convinto?
«Diciamo che ci sono momenti in cui mi interrogo, perché sono molto sfiduciato per quello che sto vedendo e anche perché ho compiuto settant'anni. Comunque ho ancora un po' di tempo per pensarci».
Nei suoi ultimi libri lei - tra non poche polemiche (c'è chi l'ha accusata di revisionismo e chi di aver fatto un'operazione politica) - ha tolto un po' di "scheletri dagli armadi" della storia d'Italia, in particolare della storia dal 25 aprile 1945 in avanti. E lo ha fatto nell'ottica inedita di un'intellettuale di sinistra. Come mai si è interessato così tardi a questo particolare aspetto del nostro passato?
«Non è vero che me ne sono interessato tardi. Fin dai tempi in cui mi stavo laureando ho sostenuto in articoli e anche - ad esempio - in un intervento per me "fatale" a un convegno sulla storia della Resistenza (a Genova, nella primavera del '59, davanti a "pezzi grossi" tipo Roberto Battaglia), che non si poteva raccontare la storia della Resistenza parlando soltanto dei partigiani. Perché la guerra è stata combattuta da due parti e si deve parlare anche dell'altra parte. Diciamo che sono arrivato tardi a scrivere dei temi che stanno nei "Figli dell'Aquila" e nel "Sangue dei Vinti", ma già nel '69 aveva pubblicato un libro che si chiama "L'esercito di Salò".
Ma quali sono le motivazioni che l'hanno spinta a scattare queste nuove fotografie della storia d'Italia?
«Perché era surreale fingere che non ci fossero stati i fascisti in Italia o che non ci fossero stati quelli che, in modo del tutto pulito e facendo una scelta che io considero ancor oggi sbagliata, erano andati a combattere quel tipo di guerra agli ordini della Repubblica di Mussolini. Ho capito che bisognava cominciare a parlare anche di loro, forse avrei potuto farlo prima, su questo sono d'accordo».
Quale è stata la molla decisiva?
«Lei non ci crederà: la vittoria di Berlusconi alle elezioni del 2001, arrivata contro le previsioni del centrosinistra, che credeva di poter facilmente "bissare" il successo del 1996 (nonostante le pessime prove offerte in quei cinque anni con quattro governi diversi). Dopo questo risultato elettorale sono andati in tilt una serie di gruppi e di "sensori politici" del centrosinistra, a cominciare dallAnpi, gli Istituti della Resistenza, la sinistra cosiddetta "antagonista" e una parte dei Ds».
In che senso "sono andato in tilt"?
«Si sono rinchiusi a riccio e hanno cominciato a dire: è arrivato il nuovo Mussolini, è tornata la dittatura. In questo modo non hanno più dato cittadinanza neppure a voci che potevano essere in un certo modo eterodosse rispetto a quella che io chiamo la tradizione un po' retorica della Guerra di Liberazione. E a quel punto io - che non accettavo di rinchiudermi nel bunker solo perché "tirava una brutta aria" - ho deciso di scrivere dei libri sulla Repubblica sociale. E' una spiegazione che non la convince»?
Beh, sicuramente è un'operazione premiata dalle vendite, ma che ha suscitato grandi critiche.
«Non capisco perché si debbano definire dei libri un'operazione? Mi fa incaz...re terribilmente questa definizione! Io sono un "cane sciolto" che decide di scrivere o meno un certo libro. E l'unico mio "complice" è l'editore. Si è mai chiesto perché questi libri hanno avuto un così grande successo? "Il Sangue dei Vinti" ha venduto 400mila copie. Perché colmavano un vuoto che era giusto colmare».
Si spieghi meglio.
«Mi chiedo, ad esempio, se veramente qualcuno pensa che della storia dei fascisti se ne debbono occupare solo i fascisti. Il fascismo non fa parte della storia d'Italia? Non è stata fascista fino all'inizio della guerra la stragrande maggioranza degli italiani? Non è andata a combattere per la Repubblica sociale un sacco di gente oggi nota e stranota perché poi è diventata antifascista e per di più di sinistra? Quando stavo al "Giorno" - nel '64 - metà dei capiservizio erano stati con la Repubblica sociale e il direttore Italo Pietra (che a Piacenza conoscono bene come grande comandante partigiano, con il nome di battaglia di Edoardo), quando era di buon umore, alla riunione del mattino chiedeva scherzosamente: "Chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice durante il rastrellamento dell'agosto del '44"? Mi chiedo perché ci si debba scandalizzare. Non ci sono stanze che non si possono aprire e io - più che un revisionista - mi considero un "completista", non mi piacciono le storie monche».
Il rischio, però, è di mettere le responsabilità degli uni e degli altri sullo stesso piano?
«Non è assolutamente vero. Ci sono responsabilità storiche ormai definite. Ma c'è anche un altro aspetto che viene sempre taciuto - ed è lì che casca l'asino - cioè che una buona metà (o anche tre quarti) del movimento partigiano, voleva "girare il secondo tempo del film", vale a dire gettare le basi per una dittatura rossa dopo quella nera».
Parliamo del "Bestiario, una rubrica d'opinione che firma con successo dal 1983 e anche un bell'osservatorio critico su un periodo storico che ha profondamente cambiato il nostro Paese. Come sceglie le le bestie del suo "Bestiario"?
«In base al mio istinto, a quello che mi piace fare. La bellezza del "Bestiario" è che non ha padroni politici a cui rispondere. Io non faccio - come tanti altri rubrichisti di tanti giornali italiani - la rubrica a senso unico perché devo vincere la mia piccola battaglia contro Berlusconi».
Ma il "Bestiario" le ha dato più rogne o più soddisfazioni?
«Mi ha dato anche qualche rogna (nel senso di querele penali o cause civili), ma soprattutto enormi soddisfazioni. Credo che il successo della rubrica sia dovuto al fatto che è comunque "sorprendente". Perché se un lettore apre il giornale e - vedendo una firma - sa già cosa dirà quel giornalista, alla fine non leggerà più i suoi articoli. Ma se quella firma è di un "cane matto" come Giampaolo Pansa, che non si può mai sapere che cosa dirà questa settimana, l'articolo incuriosisce certamente di più».
Nel 1993 lei ha scritto un libro, "L'anno dei barbari". I barbari, per lei, erano i leghisti di Umberto Bossi. Oggi chi sono i nuovi barbari?
«Intanto i leghisti continuano a esserlo. La Lega Nord non mi piace e questa nuova Costituzione fa veramente schifo. Speriamo che il referendum la cancelli, io andrò certamente a votare. Non ho mai sbagliato sulla Lega e sui leghisti, mentre un illustre giornalista - Giorgio Bocca - li aveva definiti i nuovi partigiani! I barbari di oggi sono, in generale, i politici - e devo dire che ne trovo molti nel centrodestra, ma anche nel centrosinistra - che hanno come unico credo il potere l'arroganza e il disprezzo per gli altri».
Lei ha detto: "Faccio il giornalista da 41 anni, ma è un mestiere che non mi fa più palpitare il cuore come prima". Come mai?
«Sostanzialmente perché non sono più inviato e devo dire le mie opinioni anziché raccontare i fatti. Però posso dire che mi farà sempre palpitare il cuore il poter trasferire su un giornale - anche da venticinque copie - un'opinione ai miei lettori».
Il libro di Pansa sul comodino e quello che porterebbe su di un'isola deserta?
«Sul comodino "Il partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio e nel deserto "I Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni».
È più importante leggere oppure scrivere?
«Leggere, perché se non leggi molto quando poi scrivi fai del flop pazzeschi».
I giornali vengono considerati meno bugiardi della tv. Lo sono?
«No, sono bugiardi in un modo diverso. La tivù dice delle bugie in modo plateale, mentre i giornali sono dei bugiardi astuti».
Lei è mai capitato di non poter scrivere un fatto che voleva assolutamente raccontare ai suoi lettori?
«Mi ci faccia pensare. Sì, quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera vidi personalmente l'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, che visitando l'ospedale Cardarelli teneva le mani dietro la schiena e faceva le corna. L'ho scrissi nel mio servizio, ma un caporedattore del Corriere della Sera mi disse che se non c'era una fotografia quella frase sul capo di Stato si doveva togliere. Dopo di che la foto con Leone che faceva le corna comparve sul "Candido" del terribile Giorgio Pisanò. Ho comunque imparato che c'è modo e modo di scrivere le cose».
Tra i suoi libri c'è "Comprati e venduti". Hanno mai cercato di comprarla?
«Mai! Si vede che sono poco importante».
Ma è più facile o più difficile oggi per un giornalista tenere la schiena dritta?
«Forse è più difficile perché i giornali sono diventati delle macchine enormi, mostruose. Sono centro di interessi in conflitto; più un giornale è grande e più diventa una trincea che fa gola a un sacco di persone. Per questo dico che è meno facile. Io ho cominciato a fare il giornalista in un'età - negli anni '60,'70 e '80 - in cui tutto era più semplice».
Un consiglio fondamentale a un giovane che vuole fare il giornalista.
«Rinunciare a questo proposito. Perché è molto dura. Io ho iniziato negli anni Sessanta, in pieno "boom", quando le aziende editoriali cominciavano a crescere e c'era bisogno di bravi giornalisti che non avessero paura di lavorare anche tredici ore al giorno. Oggi c'è crisi della pubblicità e una situazione generale molto complicata. Dunque c'è spazio solo per chi è animato da una fede quasi missionaria in questo mestiere e sa che dovrà affrontare lunghe anticamere e passare "mille supplizi". Se uno vuol farlo solo come alternativa a un altro lavoro è meglio che rinunci».
Quanti quotidiani legge e quanti Tg vede ogni giorno?
«Leggo undici quotidiani, concentrandomi però solo su articoli di colleghi di cui mi fido (ma non mi chieda i nomi), non ha importanza la testata, nè la linea politica del giornale. Guardo anche molti telegiornali, ma oggi soprattutto la "Sette" e i Tg di "Sky" che mi piacciono perché sono molto rapidi».
Come guarda Giampaolo Pansa alle nuove generazioni?
«Penso che sono dei "poveracci" perché li aspetta un mondo orrendo, molto più difficile di quello che ha accolto me. Il motivo? Basta leggere, non undici, ma un solo giornale per capirlo».
E che futuro sogna per l'Italia?
«Quello di un Paese dove avviene la manutenzione dell'ordinario, dove non si fanno i ponti sullo stretto di Messina o i valichi della val di Susa, ma si tengono in ordine le strade, la luce elettrica e quant'altro, si puliscono i marciapiedi e si fanno marciare i treni in orario. Vorrei un Paese com'era e come in parte è ancora la mia piccola città, Casale Monferrato».
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