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Mercoledì 20 Dicembre 2006 - Libertà

Piacenza vista da viaggiatori illustri di passaggio

"Passaggio a Piacenza" di Eugenio Gazzola e Stefano Pareti distribuita oggi come strenna natalizia della Fondazione di Piacenza e Vigevano

Oggi alle 17.30, in occasione della festa degli auguri alla Fondazione di Piacenza e Vigevano, verrà distribuito ai partecipanti, come strenna natalizia, il libro "Passaggio a Piacenza" di Eugenio Gazzola e Stefano Pareti.

di GIULIO RICCI
Il titolo è eloquente: Passaggio a Piacenza. Antologia di sguardi forestieri (editore Scritture, pagg. 4004, a cura di Eugenio Gazzola e Stefano Pareti, con prefazione di Sebastiano Vassalli). Il taglio è inconsueto. Far parlare di una città che ha 2200 anni di storia (Piacenza) da coloro che l'hanno visitata nel corso dei secoli e che ne hanno scritto, tra l'altro, molto spesso male. Una sola eccezione, ma comprensibile, fra tanti forestieri, è l'acuta testimonianza di un piacentino del sasso, Alberto Cavallari, che, in poche parole, esprime il mood, lo spirito di Piacenza: "La città è ambigua, estranea al cielo lombardo, così tenero, non ancora inondata dalla luce piena dell'Emilia". "Città militare, è più famosa tra i richiamati che fra i turisti: mezza Italia vi ha fatto il soldato". Non a caso "la fondarono i Romani nel 218 come colonia strategica". Tuttavia "a furia di avere soldati fra i piedi, la città ha finito per farsi borghese borghese, pretina pretina. Di lontano, non appare città di torri e castelli. E' un concerto di cupole, cupoloni, cupolini. E sotto la divisa della sua storia militare porta la tonaca". Cavallari prosegue: "Questa è una terra di tradizione, di prudenza e di equilibrio. I suoi comunisti sono i meno caldi dell'Emilia, i suoi cattolici i meno mistici". Di essa, Sebastiano Vassalli dice: "Non ha mai suscitato grandi curiosità, e non diventata (per sua fortuna) una città turistica".
Gli appunti di molti uomini famosi che riguardano Piacenza, come Charles Dickens e Stendhal brillano soltanto per la loro superficialità e non fanno onore alla città, ma nemmeno a chi li ha scritti. Dickens, ad esempio, scende a Piacenza dalla carrozza giusto il tempo per il cambio dei cavalli e non si capisce bene che cosa vede, perché quello che descrive è qualcosa a mezzo tra una città metafisica di de Chirico e la Calcutta di Madre Teresa ("Bambini eccessivamente sporchi si divertono con i loro giocattoli improvvisati sguazzando nel rigagnolo limaccioso delle vie, e cani magri stecchiti entrano ed escono dalle arcate buie e tristi, sempre in cerca di qualcosa da mangiare, che apparentemente non trovano mai. Nel centro di questa città inerte, s'erge, con aria greve, un palazzo di aspetto misterioso e solenne").
Le sue meraviglie, le statue equestri dei Farnese sono discusse. Massimo D'Azeglio dice che sono "orrori: svolazzi per tutto; le criniere dè cavalli paion maccheroni o serpi". Di parere opposto è Giorgio Manganelli che dichiara che "i due bei cavalli barocchi di Francesco Mochi da tre secoli si corrucciano e vogliono lanciarsi alla carica. Sono i precursori della carica dei Seicento".
Di Piacenza ha sicuramente un buon ricordo il generale cartaginese Annibale che qui parla con le parole di Tito Livio e che, alle porte di Piacenza, diede una dura lezione alle legioni romane del console Sempronio. E' invece un ricordo pessimo quello del canonico romano Gaspare del Bufarlo che, dopo un burrascoso soggiorno a Piacenza, la ridenominò "Dispiacenza". Piacenza diede profonde delusioni anche a Leonardo da Vinci che, quando viveva alla corte di Francesco Sforza, a Milano, aspirò invano a costruire le tre porte di bronzo del Duomo. Ma Piacenza, con scarsa lungimiranza, gli chiuse, è il caso di dirlo, le porte in faccia.
Su Piacenza, gli illustri viaggiatori si dividono. Lo storico Edward Gibbon afferma che "Piacenza è circondata da una bella campagna, a mezza lega dal Po, gode di tutti i benefici naturali". Mary Berry invece osserva che "non appena una carrozza si ferma alla stazione della posta, viene subito circondata da una folla di disgraziati, avvolti in ampi mantelli con cui ricoprono i cenci di cui sono vestiti". Secondo la Berry i viaggiatori sono "squadrati da cima in fondo ed esaminati accuratamente come all'ingresso di un ballo in maschera a Londra". Invece Andrè Maurel sottolinea il bello di Piacenza ricordando che "qui non è più il marmo che abbaglia. Sono il mattone e la terracotta che carezzano". E si rammarica dicendo: "Perchè da noi, in Francia, si è preso così poco da questi modelli? Non come disegno, ma come materia?".
Giorgio Manganelli, aveva conosciuto Piacenza da giovane ("in albe inospitali, quando insegnavo cose false in una scuola della provincia) ma c'è ritornato per mangiare in città dove non si era mai cibato di nulla ("Ora, una città di cui non si fa esperimento di cibo è, come dire, rata e non consumata") e in quell'occasione è rimasto folgorato dalla basilica di Sant'Antonino ("una chiesa di gran classe, nasce carolingia, ma si imparenta col gotico, ha dell'isterico, è bizzarra e bizzosa, non fa lega con niente e con nessuno"). Giuseppe Tarozzi annota: "Piacenza è una città stupenda, da scoprire un po' alla volta"
Anche perché è di sua natura dispeptico, Guido Ceronetti, vomita fuoco su Piacenza ("Ti investe la lava bollente del brutto, del rumore, strade sopra strade, tremendi ponti di ferro, treni, camion, Tir, corsie con sbarramenti, un vero teatro di guerra. Odori fluviali, niente, dovrei essere un animale per sentirli ancora, l'aria è impregnata di gas, dalle macchine lontane, tra colombe, pomodori e insalate". Tuttavia questo demolitore di professione, un guizzo di piacere estetico, sia pure restrospettivo, lo prova. "Questa Maria di Campagna , prima dell'invasione degli autonomi, doveva esser meravigliosa, il Po vicino, i campi senza fine, il borgo affettuoso che l'abbracciava". Di parere contrario è Rudolph Angermuller, accompagnatore in Italia di Wolfgang Amedeus Mozart: "Di una zona cosi bella non potevano che appropriarsene i preti con grandi prebende e ricche donazioni". Giovanni Comisso invece rimase affascinato dalle sue donne: "Nere chiome e roseo biancore delle guance subito arrossenti nel desiderio d'amare. Se il deserto senza nubi ha il compenso della rugiada, così questa città ha, nelle sue donne, la sua pausa e il suo ristoro. Di ritorno dal lavoro in bicicletta hanno l'aspetto furtivo e avvicinante delle rondini in voli rasenti".
Giuseppe Tarozzi descrive dei piacentini il carattere diffusamente anarchico, esercitato nei fatti, più che nelle dichiarazioni. "Sono a Piacenza al bar Dado. Ordino un caffè e chiedo: ?Chi comanda qui? Chi dà il tono alla vita sociale? Chi fa notizia? Chi ha seguito?'. ?Nessuno' dice la ragazza. ?Mah' aggiunge il ragazzo degli espressi. Il padrone del bar non dice niente, ma si vede benissimo che la mia domanda gli suona assurda".
Armando Zamboni vede "solidi monumenti nella città pigramente affaccendata". E Giorgio Bocca annota: "Un assessore ai lavori pubblici che ricorda un mio vecchio servizio sulla città allora priva di fognature dove dicevo che Piacenza ?galleggia sopra la merda' mi spiega: ?Adesso sotto non ce n'è più, abbiamo speso 25 miliardi per toglierla: Quella che resta è tutta sopra". Ciò non impedisce di far dire a Vittorio Sgarbi, sul settimanale "Io donna" che la città che lui, ferrarese, "preferisce in Italia è Piacenza". Ma lo ha detto prima di incrociare ferri con l'attuale sindaco di Piacenza da lui accusato di "rotondite acuta", a causa delle troppe rotatorie realizzate in città. Chissà se Sgarbi è restato del medesimo parere.

Giulio Ricci

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